giovedì 7 febbraio 2008

Ortigia, l'isola nell'isola


Passeggio senza una meta tra i vicoli di Ortigia, l’isolotto su cui approdarono i coloni greci di Corinto nel 733 a.C. Si respira l’atmosfera del Mediterraneo: i templi greci, i palazzi di calcare bianco e abbagliante che si stagliano su un cielo indaco, i vicoli tortuosi e i giardini nascosti da cui di tanto in tanto sfugge un ramo di profumato gelsomino. Le vetrine dei panifici mi ricordano la Turchia e l’Egitto: panini di forme curiose ricoperti da semi di sesamo (la giuggiulèna, come dicono qui) i frutti di Martorana, ovvero pasta di mandorle lavorata fino ad ottenere la forma e i colori della frutta che per un momento l’occhio si illude di vedere. Il mercato è uno dei luoghi che preferisco: bancarelle cariche di frutta e verdure a volte sconosciute, botteghe di spezie colorate e dal profumo pungente che sembra di essere in Marocco. E poi i banchi del pesce: pesci spada giganti, che ti guardano con i loro occhi blu e profondi come il mare da cui sono stati strappati, spatole color argento, tonni dalle carni rosse. Qualcuno cerca di arrotondare le magre entrate e allestisce ai margini del mercato un banco di fortuna con una bacinella e qualche cartone: offre ricci, polipi vivi, qualche miscuglio di pesciolini troppo piccoli e sconosciuti. Agli odori e ai colori, si uniscono i richiami dei venditori, che scoppiano in cantilene incomprensibili, modulando la voce come fa il muezzin per il richiamo alla preghiera dall’alto dei minareti. La gente cammina con l’indolenza di chi vive al caldo, di chi percorre strade contorte e affollate, di chi è appagato dalla vita e non ha nulla da inseguire. Per qualche momento, cerco di sentirmi come loro.

Nessun commento: